L'intervista al designer Cleto Munari | G. di Vicenza

2022-10-16 21:14:30 By : Ms. Rachel Ma

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L'argomento più scivoloso è quello dell'età. Non bisognerebbe nemmeno sfiorarlo. Ma dobbiamo. Perché è fonte di continua sorpresa in chi lo incontra, reduce da una partita di tennis, da un volo in Lettonia, da una sessione gastronomica. Cleto Munari è nato nel 1930. E cambia subito discorso. Vorrebbe non festeggiare più, ma gli amici - ne ha in tutto il mondo - ogni anno gli impongono una pioggia rituale di auguri. «Avendo io cominciato realmente a lavorare a 40 anni, di cosa si stupiscono? Che corro novantenne? Sto riprendendomi il tempo di prima» spiega il designer che solo in questo ultimo anno ha prodotto collezioni di tavoli in marmo, di gioielli (è a quota 200 pezzi), di divani, ceramiche a Nove, presenziato ad almeno sue quattro mostre, l'ultima in corso è a Gerusalemme. Le sue creazioni sono nei musei di arte contemporanea, i suoi contatti sono stellari. A Brendola, chi apre la sua porta spesso si è trovato davanti attori, archistar, premi Nobel. Fermo mai. Lo pervade la fiamma del creativo che ancora oggi si illumina davanti ad un'ombra, ad una forma, più spesso attorno ad un contrasto. Come Iris Apfel, la newyorchese centenaria dagli occhiali giganti.

Come è riuscito Cleto ad innamorarsi anche degli occhiali? Giampiero Mughini le fa da testimonial. Se è per questo glieli mando da tempo, gli piacciono molto specie gli ultimi che ho disegnato a più strati concavi e convessi. Anche Sgarbi li ha. Questi ultimi li faccio con la Concato di Alte, a Montecchio, giovani e bravi, lavora con loro Jacques Durand che prima era con Mikli. Capisce che livello, design d'avanguardia ma nello stesso tempo artigianale, come piace a me.

Possibile che sia il fiuto a guidarla? Non il senso degli affari? Ho sempre fatto poesia pura, non ho mai lavorato per puro business. Mia moglie Valentina (una storia che dura da 60 anni, ndr) quando portavo a casa articoli che parlavano di me e delle mie mostre a New York, Tokyo o in Russia mi rispondeva: meno articoli e più quattrini, sarebbe meglio. Io ridevo perché nella mia vita ho fatto solo cose che mi interessavano realmente. Non incassi stratosferici ma vivere bene con buoni guadagni e soprattutto prodotti belli da vedere e da usare. I grandi anni sono stati i Settanta e gli Ottanta: enti, banche e aziende largheggiavano con le forniture di oggetti promozionali e regali di fine anno. Ma quello è un periodo finito per sempre. Badi però erano pezzi di design unici, d'artigianato raffinato, curatissimi, non "battarìa".

Riavvolgo il nastro della sua vita. Nasce a Gorizia, ma da bimbo arriva a Vicenza. Il nonno fu proprietario per qualche tempo della villa La Rotonda, e non è leggenda. Studi: quelli richiesti. La famiglia era benestante? Stavamo nel ramo scaldabagni, farà ridere ma era così. Ho vissuto spensieratamente. Lavoricchiavo, se dovevo. Avevo giornate libere, per lo sport, le carte, l'equitazione, gli amici, l'amore. Ne abbiamo combinate tante, andavamo ai festini, c'era anche Parise in un angolo da solo. Ecco la malinconia viene dal pensare che di quei coetanei non è rimasto più nessuno.

Nel 1972 conosce Carlo Scarpa: la vita svolta. Lo racconto sempre. Lo cercavo perché volevo fargli disegnare delle posate da cui non cadessero i cibi, a partire dai piselli. Sapevo che l'architetto Motterle era un suo assistente e gli chiesi di incontrarlo. Ma non accadeva mai. «È impegnato, il professore è strano, ha sempre da fare» erano le risposte. Una sera arrivo ad una cena dove ci sono anche Neri Pozza, Lea Quaretti e altri. Il giorno dopo il professore mi fa chiamare attraverso la moglie Nini Lazzari. Vado a villa ai Nani, dove abitava al tempo, faccio colazione con lui. Parliamo, gli spiego delle posate, mi replica "mah, vedremo". Scarpa mi chiese se avevo da fare il pomeriggio, ero libero . E da allora stavo con lui da mattina a sera, con gli studenti che lo cercavano, ascoltavo e imparavo. Attorno aveva sempre gente, ero affascinato dai suoi libri di architettura e d'arte. Diventai il suo accompagnatore, perché aveva la macchina ma non la patente. Visitavamo cantieri, a Verona, a Venezia, mi chiedeva se sapevo di produzione. Prendevano il the nel pomeriggio, poi si tornava a parlare di proporzioni, era il tema per lui chiave. Conobbi grazie a lui tanti personaggi come lo storico dell'arte Giuseppe Mazzariol.

Un giorno però le scappò una osservazione. Il professore era avvolto da un'aurea e non si poteva contraddirlo. Ma una mattina guardai un bicchiere che aveva disegnato e osai dire che era un po' alto . Mi incenerì con lo sguardo. Chiesi scusa. Ma il giorno dopo mi chiamò: "Munari può camminare con le sue gambe, ha acquisito il senso delle proporzioni". Mi invitava a disegnare e progettare a mia volta. Una seconda volta andammo a Monselice, al cantiere dalla banca Antoniana progettata dal professore. Bello, osai dire: come entrano i disabili qui? Dopo un'ora mi chiamò da parte e disse che avevo ragione. Mi spingeva a provarci e cominciai a progettare oggetti e a cercare le aziende che li producessero. Mi riconobbe delle capacità, ne ero felice.

Come reclamizzava le sue creazioni, la conoscevano pochi...? Ho sempre avuto una grande faccia tosta, non avevo paura di suonare campanelli e salire i piani alti. Magari col nome di un amico, o di un conoscente da spendere. Roma era un serbatoio per me immenso: la Rai, l'Eni, l'Enel, gli istituti di credito...proponevo i miei vassoi, gli orologi, oggetti da scrivania, raccoglievo le loro richieste, progettavo e tornavo coi prototipi. Uno dei più incredibili personaggi dell'epoca fu Ettore Bernabei. Gli chiesi un appuntamento, era febbraio, guardò l'agenda me lo diede per l'8 giugno alle 17.15. Mi spediva all'ufficio acquisti col suo budget. Gli unici con cui non sono mai riuscito a lavorare sono stati quelli della Popolare di Vicenza. Ma è un'altra storia.

Quanto durò il sodalizio col professor Scarpa? Dal '72 alla sua morte, nel 1978. Fu lui a regalarmi la notorietà quando decise di firmare le posate che io produssi, a Venezia la presentazione fu un evento da telegiornale . Ma inventammo mille cose. Una sera nel '74, a tavola c'era anche Fini di Modena, mancava una grappa decente: Scarpa ordinò "Munari domani compriamo una distilleria e la produciamo noi". Nel giro di tre giorni era fatta. Diventai socio al 25 per cento, inventammo la Grappa Forte. Un successo mai visto. Arrigo Cipriani la impose come l'unica grappa nel suo ristorante. La Buitoni che possedeva la Perugina chiese la licenza per la vendita degli alcolici e in 50 negozi italiani fece la vetrina con la Grappa Forte, per le confezioni mi chiesero oggetti d'argento, durò anni, fu incredibile. Andavamo dagli amici degli amici, arrivavamo dovunque con la simpatia. Perfino il pittore Pietro Annigoni mi fece le etichette in sanguigna, chiese un cartone di grappa come compenso e fummo amici. Il marchio durò vent'anni e nacque quasi per scherzo.

Cosa accadde quando l'architetto Scarpa morì, per una banale caduta in Giappone? Ricevevo la deviazione di chiamata da casa sua quando lui era all'estero e arrivò la telefonata che aveva vinto il concorso del teatro Carlo Felice, una specie di consacrazione i professionale. Lui non aveva il senso del denaro, spendeva in libri e vini, portava a casa i volumi un po' alla volta dalla libreria di Virgilio Scapin perché la moglie brontolava. Dopo la telefonata da Genova, arrivò quella dal Giappone: era morto. Piansi, come non avevo fatto nemmeno per mio padre. Fu un trauma.

Un altro personaggio che lei ha come riferimento è Ettore Sottsass, anche lui conosciuto attraverso Scarpa. Il professore diceva che Ettore avrebbe potuto fare tutto: l'artista, il designer, lo scrittore, un genio. Insieme a Sottsass arredai la mia casa di Venezia, l'ho tenuta 20 anni, e nacquero nel mio salotto i primi mobili Memphis, vere icone dell'arredo. Fummo soci e il patto era che da lunedì a venerdì sarei stato a Milano per seguire la parte commerciale dello studio. La prima settimana ci riuscii, la seconda tornai il giovedì, la terza il mercoledì, la quarta il martedì. Andavo su alla fine un giorno la settimana perché non digerivo Milano, i suoi ritmi infernali, le serate con tre inaugurazioni. Vicenza mi dava la pace di cui avevo bisogno, e soprattutto la conoscenza di tanti artigiani su cui contare. Anche Roma mi è sempre piaciuta; ha un ritmo lento, la gente sorride ed è accomodante. Io sono socievole, Milano non lo è mai stata.

Venezia invece che cosa le ha regalato? Innanzitutto lezioni di bellezza, la storia della Serenissima, una biennale l'anno tra arte e architettura. A casa mia a Venezia sono stati tutti tra i più grandi architetti del mondo, da Meier a Gehry e Foster. Abitavamo lì almeno tre mesi l'ano, poi Sottsass fece una porta orientale nella mia cucina e mi chiamò: Cleto prendi un cuoco cinese. Per un anno e mezzo ebbi uno chef cinese che cucinava per tutti gli ospiti. Poi divenni socio di una fornace, la Cenedese, per produrre i miei vetri. Venezia era diventata lavoro, ospitalità, luogo di follie ma intelligenti.

Tutto questo adesso è impensabile. Non lo so, è cambiato il mondo. Un tempo erano le relazioni centrali. Oggi le logiche sono altre.

Parliamo delle sue passioni vere, tipo l'abbigliamento. È vero che rischiò di essere buttato fuori per le sue giacche colorate? Ero andato in Finmeccanica a conoscere il presidente Franco Viezzioli, poi guidò l'Enel. Mi chiede cosa faccio, gli propongo del design per i gadget, parliamo e mi congeda. "La prossima volta si metta almeno le calze e un giacca adeguata" mi disse. Da sempre porto i mocassini colorati senza calze e giacche colorate. L'appuntamento successivo mi annuncia la segretaria: c'è Munari con i calzini bianchi. Diventammo amici e facemmo le vacanze in Istria un'estate. Un altro manager del credito che avevo visto sulla copertina di Capital, mi chiama in riunione: quel giorno ero arrivato col vestito grigio giusto, ma a colazione il cameriere mi rovescia mezzo piatto addosso, devo cambiare giacca, ne ho una gialla canarino. Entro in sala, brusio. "Munari non può venire qui con giacche simili": spiego che abbiamo un'età di mezzo e non bisogna sentirsi vecchi e già pronti ai ritocchi, l'abito è un linguaggio. Altri sei mesi e quel manager era vestito di spinato rosso e grigio e scarpe bianconere, tremendo. Una giacca nera che feci fare da una sarta vicentina, cucendo 700 quadrati di stoffa, la voleva ad ogni costo Jean Todt della Ferrari che mi fermò con Montezemolo a Bologna: fu divertente.

È vero che ha fatto anche il modello? Per Marzotto, Zegna e Corneliani. Per Zegna ho disegnato giacche. Ma il contatto più interessante fu il Gruppo finanziario tessile dei Rivetti di Torino. Erano loro a decidere tutto in Italia sull'abbigliamento maschile. Mi chiama il responsabile dei capi, un veneziano, quel giorno c'era anche lo stilista Emanuel Ungaro genero di Bernabei. Vedo gli abiti e dico: ma questo sarebbe bello rosso, questo bianco, questo oro. Mi fecero un contratto di consulenza per 12 anni, per me era una gioia.

Cosa vuol dire vestirsi di colori? Uscire dall'anonimato. Quando facevo scarpe, ho inventato la fodera di cotone con Rigon di Vicenza. Ho fatto gli stivali a Raimondo D'Inzeo, le scarpe per il professore Scarpa, le ballerine a Nureyev.

Sempre cose uniche? Come la Porsche che ho rivestito di colori. È l'unica della casa madre che porta un nome, Porsche Cleto Munari, ce l'ha un collezionista.

È vero inaugurerà un monumento in Abruzzo? Ho un amico che organizza le serate di arte e gastronomia : a tavola c'era un assessore che mi ha coinvolto nell'arredo urbano di fronte ad una scuola. Ho progettato un omaggio al sapere, dei libri colorati ad incastro con sopra un arco che lancia i ragazzi verso il futuro.

Non c'è sfida dove si tiri indietro. Avevo anche progettato dei Caffè letterari per la Treccani, mentre ora sto lavorando con l'azienda Moroso di Tavagnacco che si è innamorata di alcuni mobili...mi capitano delle cose bellissime.

Come la mettiamo con la tavola, la vera, ultima tentazione? Sono un disastro. Mi piace la buona cucina , non so resistere, il mio maggiordomo Dinés è troppo bravo e abbiamo anche un orto ben fornito. Viaggio sempre meno, la cucina è una... consolazione.

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